Il mio Verona mi fa infelice

“Il mio Verona mi fa felice.

Se segna un gol.

Non saprai mai quanto ti amo …”

La logica e la grammatica ci restituiscono di questo storico coro solo il terzo verso. Caro Verona, non saprai mai quanto ti amiamo. Perché di gol e di felicità da un anno a questa parte – sì, nonostante la promozione immediata in A – se ne sono visti e respirati ben pochi.

Siccome il Verona siamo noi, al di là di presidenti, dirigenti, giornalisti, addetti, tecnici, opinionisti, soloni barbuti o barbosi, il Verona siamo noi ed a noi si aggiungono gli undici in campo, credo che tutti noi dobbiamo chiederci perché questo Verona ci fa infelici.

Eppure tecnicamente e statisticamente la presidenza Setti è tra le migliori della storia del Verona. Dunque perché già dall’autunno che ci vedeva in testa alla serie B, per non parlare dell’autunno che ci ha visto immediatamente languire in fondo alla A, penultimi solo per cortesia beneventana, siamo infelici? Perché al tempio si respira aria da crollo e diaspora?

Le maglie e i colori. Sì, contano. Hellas significa fare la fila agli odiosi tornelli, salire le vecchie scale, rimanere abbagliati dal verde del campo e dal gialloblù delle divise. In questi anni si è scherzato con i colori: gli scacchi, le righine, le rigone ed il vomitevole fluo. Pietà. Facciamo fare le maglie al vecchio Gambini, ma basta con questo scempio con buona pace del baffo dell’Oregon.

Il sigaro. Per fortuna a Verona abbiamo avuto rari presidenti da tragicommedia, da sceneggiate. Abbiamo avuto sempre (o quasi) dirigenti composti. Ma almeno un po’, senza clamore, il presidente dovrebbe essere tifoso. L’aplomb dell’imprenditore emiliano, eternamente accigliato, non è incoraggiante. Presidente, el bea un gotto e el se fassa na sganassada anca lu ogni tanto.

La voce. Il Bentegodi è noto ovunque per il sostegno all’Hellas, per saper scatenare l’inferno, da far venire mal di testa agli avversari, le raucedine ai telecronisti, le lacrime agli eroi. Ma Verona da anni ha perso la sua voce, quella che ha fatto innamorare tutti noi, prima e più della morosa: Roberto Puliero. In radio soprattutto e allo stadio per pochi anni, Puliero è stato un simbolo del Verona. Arguto, istrionico, critico, dissacrante, è lui il primo cantore dell’epopea gialloblù, da Iorio a Mihalcea, da Preben a Zeytullayev, passando per “tortellino” Guidetti e “TotòTotòTotò” De Vitis. Non so se “il maestro di color che recitano a Verona” abbia ancora voglia e voce, ma ridiamogli un microfono, per amore dei gialloblù.

‘A cazzimma. The commitment. L’impegno. Chiamatela come volete. Da noi si chiamano “maroni”. Che sia Serie A, che sia Serie B, frega il giusto. Verona è una terra di guerrieri, che dalla terra sono nati e dalla terra hanno tirato fuori una delle province più ricche del mondo. È una terra di matti, di santi e soprattutto di bevitori. In ogni caso una terra di appassionati, di gente che mette i “maroni” in quello che fa dal lunedì al sabato. Nel fine settimana chiediamo solo che gli altri undici gialloblù facciano altrettanto. Poco importa se a sinistra corra l’aristocratico De Agostini o l’arruffone Fares. Il mio Verona mi fa felice, se in campo scendono undici guerrieri.

Gianni Tomelleri

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