In ricordo, viaggio con papà

di Massimo Recchia

Per raggiungere il Mirabello di Reggio Emilia in auto e in tempo utile per acquistare sul luogo i biglietti bisognava scombinare le abitudini domenicali in quell’inverno degli anni 70. Già veniva complicato arrivare in tempo alla messa delle dieci e mezza, figuriamoci arrivare alle due in un altro emisfero terrestre. Eh si, fuori di Verona non esisteva nulla se non le colonne D’Ercole ed il nuovo mondo, calcistico. Al massimo Vicenza poteva ancora intendersi fra civiltà e giungla, figuriamoci un posto che aveva due nomi. Reggio e poi Emilia. Perché non Reggioemilia ci chiedevamo.. come Beccacivetta no? Mica si scrive Becca di Civetta. Mah. Già era così un’ansia traguardare l’Adige ad Albaredo che pensare di oltrepassare il Po come Don Camillo rincorso dagli uomini di Peppone ci lasciava molti timori. E se avessimo trovato la famosa nebbia della bassa padana? E se l’acqua del radiatore della Lancia avesse come solito cominciato a bollire? Ci chiedevamo se fosse stato lecito attingerla dal ponte di Ostiglia con un secchio ed una corda e se ci avesse visto il guardiapesca e multato per mancanza di licenza. Noi avevamo paura delle guardie, tutte le guardie compresi i guardapesca e i guardacaccia. Stranieri in casa Italia il gruppo meccanizzato di tifosi gialloblù della mia famiglia. Panini imbottiti di “bondola” o “formajo verde” e uova sode da rompere pronte al sale e pepe rigorosamente custoditi in un astuccio di similpelle uguale agli interni grigi della Flavia. Pandan, ecco, rigore e sobrietà con quel tocco del cuscino di lana giallo e blu sulla cappelliera in bella vista dietro assieme ai due gattini dal collo elastico che avrebbero potuto pubblicizzare la malattia parkinsoniana. Il massacro ottico dal lunotto addobbato in ostentata vista appena all’ingresso della fortificazione emiliana era assimilabile alla bandiera della Juve affissa sul terrazzo di piazza della Signoria a Firenze. L’arrivo coronato da almeno otto errori di incroci e bivi, per la carta stradale rovesciata a novanta gradi rispetto la direzione di marcia, avveniva in sordina. Il parcheggio oculato e sicuro del papà avveniva quasi sempre sotto o davanti il punto di raccolta degli ultras emiliani, che però, a scriver vero, avevano solo le bandiere e qualche sciarpa ed ombrelli con loro. Questi d’oggi, invece, muniti di smartphone e lattina di birra sono meno attrezzati ma forse un attimo più acidini. Solo un attimino però. La biglietteria incastonata nella mura dello stadio accumunava tutti, gialli blu rossi viola verdi. Un arcobaleno di sguardi taglienti che veniva reso pacifico dalla presenza dei bambini e giovanotti come me. Forse pensandoci bene in quei tempi a parte qualche sfottere regional dipendente e l’ombrellata di rito, erano proprio i bambini a cloroformizzare le tifoserie. Biglietti da acquistare, quali? Non c’era la tessera del tifoso, io avevo quella della filovia nient’altro. Si cercava il prezzo più conveniente, eravamo in quattro in famiglia, se andava bene la mamma restava fuori con mia zia a girare per la città come una moderna turista giapponese. Eh si, miei cari lettori, c’erano anche i parenti, zii e prozii. Generazioni di gialloblu erranti per le terre del nord d’Italia di domenica che nelle sere d’inverno e d’autunno si perdevano clamorosamente nella nebbia delle statali come quella volta. Arrivammo di lunedì, prestino prima dell’alba. L’Adige annebbiato ci abbracciò come un papà di ritorno dalla guerra.

Ciao papà, ciao ancora.

Mi hai fatto innamorare della passione, della tristezza e della gioia che ognuno di noi Tifosi Veronesi porta in sé. Siamo veramente diversi dagli altri. Grazie.

1 COMMENTO

  1. Ciao massimo mi ricordo una trasferta sofferta con la nebbia e la strada ghiacciata mi sembra ché abbiamo vinto.
    Sei diventato bravo, prosegui

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